RECENSIONE: “Il diritto di opporsi”, di Bryan Stevenson (Fazi Editore)

Lettori e lettrici de La Parola ai Libri,

la recensione di oggi è dedicata al libro da cui è stato tratto l’omonimo film al cinema,
Il diritto di opporsi” di Bryan Stevenson, entrambi usciti il 30 gennaio.
È stato pubblicato da Fazi Editore, che ringrazio per la copia,
ed è sul podio (si, di già) come migliore lettura dell’anno, per quanto mi riguarda.

Di seguito, le consuete informazioni tecniche, la trama e la mia opinione.


Autore: Bryan Stevenson; Titolo: Il diritto di opporsi; Casa editrice: Fazi Editore; Traduttore: Michele Zurlo; Pagine 446; Codice isbn: 9788893257015; Prezzo € 16,00; Data di pubblicazione: 30 gennaio 2020.

TRAMA

Il libro da cui è tratto il film omonimo con Michael B. Jordan, Jamie Foxx e Brie Larson.

Bryan Stevenson era un giovane avvocato da poco laureatosi a Harvard quando decise di trasferirsi a Montgomery, in Alabama, e fondare la Equal Justice Initiative, un’organizzazione senza scopo di lucro impegnata a porre fine all’incarcerazione di massa e alle pene estreme, a sfidare l’ingiustizia razziale ed economica e a proteggere i diritti umani fondamentali delle persone più deboli e vulnerabili. Al resoconto della sua formazione Stevenson intreccia le storie delle persone che ha difeso e che lo hanno condotto in un groviglio di cospirazioni, macchinazioni politiche, inganni legali e razzismo diffuso, modificando profondamente la sua concezione della giustizia. Tra i vari casi spicca quello di Walter McMillian, un afroamericano condannato a morte per l’omicidio di una ragazza bianca, nonostante innumerevoli prove dimostrassero la sua innocenza.
Il diritto di opporsi è un’indimenticabile testimonianza del coraggio, della perseveranza e dell’umanità necessarie a perseguire una giustizia più equa, ma anche una struggente denuncia contro la pena di morte.
Da questo libro, un bestseller da un milione e mezzo di copie vendute che da duecento settimane è ai vertici delle classifiche americane, è stato tratto il film con Michael B. Jordan, Jamie Foxx e Brie Larson.


RECENSIONE

Abbiamo bisogno di più pietà. Abbiamo bisogno di più giustizia.

Scrivere questa recensione è davvero molto difficile, perché l’esperienza di lettura è stata talmente forte che riuscire a trovare le parole giuste per esprimere tutto mi sembra quasi utopistico, come se tutto ciò che potessi dire non fosse sufficientemente esaustivo.

Il diritto di opporsi mi ha toccata come pochi altri libri, mi ha coinvolta, sconvolta, turbata, rotta in mille pezzi, addolorata, provocato rabbia, frustrazione, impotenza, vergogna. Gli argomenti trattati sono di una drammaticità senza eguali, ma non mi stancherò mai di consigliarne la lettura, mai, perché ritengo non esista nulla più della conoscenza, specie se sorretta da testimonianze dirette, che possa aiutare nella consapevolezza, nel rafforzare la nostra coscienza critica, nello spingere a meditare sulle gravissime ingiustizie che si verificano, sulle terribili iniquità che colpiscono gli ultimi, gli emarginati, i poveri, i discriminati, i “distrutti”, per riuscire a ritrovare umanità.

Questo libro è un memoir di denuncia agghiacciante con cui l’avvocato Bryan Stevenson ha disvelato un sistema cinico, corrotto e complice di macchinazioni e inganni legali nelle carceri e nei tribunali, luoghi in cui ha assistito a brutali condizioni di detenzione, alle ingiustizie più inimmaginabili, alle punizioni più crudeli e alle pene più estreme, nel Sud degli Stati Uniti. Un sistema che non si cura affatto di chiarire l’effettiva colpevolezza di un condannato, ma che infligge pene e sentenze di morte con facilità e frequenza allarmanti, spesso a sfondo razziale.

Bryan Stevenson ha dedicato la sua vita alla lotta dei diritti civili, dei diritti umani. Conosce bene le condizioni di vita delle comunità di colore, la divisione netta con i bianchi e la certezza di un destino segnato.

Ero cresciuto sulla costa orientale della penisola di Delmarva, nel Delaware, in un insediamento povero, rurale e soggetto alla segregazione delle razze, un luogo in cui la storia razziale del nostro paese aveva proiettato un’ombra lunga. (…)
Gli afroamericani vivevano segregati nei ghetti isolati dai binari della ferrovia, in piccole città o all’interno dei “settori di colore” nelle campagne. Io sono cresciuto in un insediamento rurale in cui c’erano persone che vivevano in baracche minuscole; famiglie sprovviste di impianti idraulici interni e che erano costrette a usare i gabinetti all’esterno. Le nostre aree di gioco all’aperto le dovevamo condividere con i polli e i maiali. I neri intorno a me erano gente forte e determinata, ma esclusa ed emarginata. (…)
Era come se tutti avessimo addosso una veste non gradita fatta di differenza razziale, che ci vincolava, ci confinava e ci limitava. Malgrado i miei parenti lavorassero tutto il tempo e duramente, non sembravano mai prosperare.

Da oltre 30 anni è impegnato in questa battaglia. Nel libro ripercorre la sua esperienza, raccontandoci di come nel 1983, all’età di 23 anni, sta per incontrare per la prima volta un detenuto in un carcere di massima sicurezza, condannato alla pena di morte. È iscritto ad un corso sui “Processi a sfondo razziale e legati alla povertà” della Facoltà di Legge di Harvard e sta facendo tirocinio ad Atlanta, in Georgia. È nervoso, inesperto, non sa bene come comportarsi. Poco prima di iniziare questa nuova fase, non sa ancora di preciso cosa avrebbe fatto della sua vita, ma di una cosa era certo: avrebbe avuto a che fare con i deboli, con i poveri, con la storia delle ineguaglianze razziali in America e con la lotta per l’equità e la giustizia. Ed infatti, terminato il corso decide di trasferirsi lì, negli stati poveri del Sud, in Alabama con base a Montgomery, di occuparsi dei casi delle persone condannate ingiustamente, malamente rappresentate legalmente o non rappresentare affatto, aprendo uno studio legale e fondando una organizzazione no profit, la Equal Justice Iniziative (EJI), con Eva Ansley, prima a Tuscaloosa nel 1989 e poi a Montgomery, con l’intento di fornire assistenza legale gratuita alle persone rinchiuse nel braccio della morte dell’Alabama.

Il nostro intento è aiutare le persone nel braccio della morte. In realtà, stiamo cercando di fermare la pena di morte. Cerchiamo di fare qualcosa per le condizioni dei carcerati e per le pene eccessive. Vogliamo liberare le persone che sono state condannate ingiustamente. Vogliamo mettere fine alle sentenze inique nelle cause penali e far cessare i pregiudizi razziali nella giustizia penale. Stiamo provando ad aiutare i poveri e a fare qualcosa per la difesa degli indigenti, e per il fatto che la gente non riceve l’assistenza legale di cui ha bisogno. Cerchiamo di dare aiuto a chi soffre di infermità mentali. Stiamo provando a far siche smettano di mandare i ragazzini nelle prigioni e nelle carceri destinate agli adulti. Stiamo cercando di fare qualcosa per la povertà e la mancanza di speranza che regnano nelle comunità povere. Vogliamo vedere più diversità in seno alle cariche decisionali all’interno del sistema di giustizia. Proviamo a insegnare alla gente la storia razziale e il bisogno di giustizia razziale. Stiamo cercando di combattere gli abusi di potere della polizia e dei pubblici ministeri

Con estrema lucidità e profondità, Bryan Stevenson ci racconta di alcuni dei casi di cui si è occupato, storie di violenza, degrado, abusi, traumi, miseria. Testimonianze crude, che fanno gelare il sangue e a cui è impossibile restare indifferenti. Ho dovuto spesso serrare gli occhi, frenare le immagini che la lettura mi evocava, stringere i pugni, ingoiare lacrime di indignazione e pietà.

Spicca il caso di Walter McMillian, detto Jhonny D, la cui storia si alterna con le altre narrate da Stevenson. Walter è un uomo di colore, questa la sua prima macchia. Non è istruito, è un gran lavoratore, vive in un misero insediamento nei pressi di Monroeville, luoghi che hanno conosciuto notorietà grazie al capolavoro di Harper Lee, Il buio oltre la siepe. Da piccolo frequenta per pochissimo tempo la scuola per gente di colore, ma una volta compiuti 8 anni, le sue braccia erano necessarie ed indispensabili per la raccolta del cotone. Negli anni ’70 avvia una propria attività nel settore del legname, con coraggio e audacia, riuscendo a portarla avanti e conquistare la stima, l’ammirazione e il rispetto da una parte, e il disprezzo e il sospetto dall’altra. Viene descritto come un uomo gentile, rispettoso, generoso, disponibile e accomodante, molto gradito dalle persone con cui era in affari, sia bianchi che neri. Tutto questo si spezza nel momento in cui ha una relazione extraconiugale con una donna bianca sposata, perché quando il marito di lei lo viene a sapere la denuncia e svergogna pubblicamente. Anche Walter era sposato, e aveva tre figli. Questo “scandalo” rovina per sempre la sua reputazione, la gente cova rabbia e ostilità nei suoi confronti, e questo apre il dibattito sulla questione delle relazioni interraziali tra bianchi e neri, vietate e viste come un atto spregiudicato. Sarà proprio da questo atto spregiudicato che deriverà il sentimento di vendetta che lo porterà, ingiustamente, ad essere ritenuto l’assassino di una donna bianca di diciotto anni in una lavanderia nel 1986, e detenuto nel braccio della morte, condannato a morire.

Nel 1987, al primo incontro con Bryan Stevenson, Walter, con tono emozionato e pacato allo stesso tempo, gli ripete con insistenza di essere innocente, e che aveva bisogno che gli credesse. Era stato incastrato con false accuse, la polizia aveva bisogno di un colpevole, pressata com’era dall’opinione pubblica che pretendeva di avere giustizia, così spinge un reietto, abile nel depistaggio e nella manipolazione, Ralph Meyers a rendere false testimonianze atte a indicare McMillian, che non aveva mai visto l’uomo, come l’assassino. Anche se la sue accuse non reggono, perché sono palesemente inventate di sana pianta e nonostante le prove dell’innocenza di Walter, che aveva un alibi confermato da più di dieci persone per il giorno in cui Ronda Morrison era stata uccisa, finisce nel braccio della morte, in attesa di essere ucciso sulla sedia elettrica.

Inizia da qui una durissima battaglia legale da parte di Stevenson, incredulo quanto McMillian stesso di fronte alla eclatante ingiustizia perpetrata a suo danno. E’ evidente che il movente della sua condanna sia razziale. Si scontra con diritti negati, comportamenti illegali, una corruzione e una serie di inganni che lo lasciano esterrefatto, ma sempre più motivato a lottare per dare giustizia ad un uomo innocente. E non lo fermeranno i soprusi, le minacce di morte e gli allarmi bomba. Nulla.

Mi aveva fatto comprendere [Walter] per quale motivo dobbiamo riformare un sistema di giustizia penale che continua a trattare meglio le persone ricche e colpevoli rispetto a quelle povere e innocenti. Un sistema che nega ai poveri l’assistenza legale di cui hanno bisogno, che rende la ricchezza e la posizione sociale più importanti della colpevolezza, deve essere cambiato.


Come ho scritto sopra, il caso McMillian non è il solo che ci viene raccontato. La linea temporale della narrazione non segue un corso preciso, ma distorto, va avanti e indietro, alterna le vicende. Ma non ci disturba, al contrario, ci restituisce un resoconto sagace, partecipato, limpido. Ogni storia innesca emozioni e sentimenti, strette al cuore, incredulità.

Diritti umani, diritti civili, condizioni disumane di detenzione, pena di morte, abusi di potere, abusi e soprusi nelle carceri, condanne definitive e minori trattati e processati al pari degli adulti, detenuti nelle carceri destinate agli adulti, con tutte le violenze e le crudeltà che ne sono conseguite, come le donne e i minori, spesso poco più che bambini, abusati e violentati ripetutamente dagli agenti penitenziari.

Problemi di natura sanitaria come la tossicodipendenza, la povertà che poteva spingere qualcuno a staccare un assegno scoperto, i disturbi infantili del comportamento, la gestione degli indigenti disabili mentalmente e persino le questioni legate all’immigrazione: a tutte queste questioni il legislatore rispondeva mandando la gente in prigione.


Bryan Stevenson è un esempio di coraggio, umanità, determinazione, speranza. Speranza che le cose possano cambiare, migliorare. Non siamo diversi, siamo tutti “distrutti”,

Ma la nostra distruzione è anche la fonte dell’umanità che ci accomuna, la base per la nostra ricerca condivisa di un conforto, di un significato e di una guarigione. (…)
Così tanti tra noi si sono lasciati prendere dalla rabbia e dalla paura. Siamo diventati così paurosi e vendicativi che abbiamo gettato via i bambini, ci siamo disfatti dei disabili e abbiamo autorizzato l’incarcerazione dei deboli e dei malati: non perché costituiscano una minaccia alla sicurezza pubblica o perché non possano essere reinseriti, ma perché riteniamo che questo faccia sembrare noi tenaci, meno distrutti.


Comprendere la distruzione porta al desiderio e al bisogno di pietà.
Si inizia a riconoscere l’umanità che risiede in ciascuno di noi.


Leggetelo, e diffondete il più possibile questa storia.