RECENSIONE: “Il dottore di Varsavia”, di Elisabeth Gifford (Giunti Editore)

Cari lettori e care lettrici de La Parola ai Libri,
la recensione di oggi riguarda un romanzo molto toccante, ispirato a fatti realmente accaduti alle persone menzionate nella narrazione. Si tratta de Il dottore di Varsavia  di Elisabeth Gifford, pubblicato da Giunti.


«Guardate, perfino una piccola candela è più forte dell’oscurità» dice Korczak ai bambini. «Per questo non dobbiamo mai smettere di credere che ogni atto di gentilezza sia più forte del buio.»


 SCHEDA TECNICA

Titolo: Il dottore di Varsavia
Autore: Elisabeth Gifford
Editore: Giunti
Collana: A
Traduttore: Roberto Serrai
Prezzo: € 14,90
Pagine: 352
ISBN – EAN: 9788809859692
Data di pubblicazione: 16/01/2019


TRAMA

Varsavia, 1937. Quando Misha, giovane studente ebreo, assiste per la prima volta a una lezione del brillante dottor Korczac, capisce subito che il suo destino è diventare un insegnante. Celebre in tutto il Paese per i suoi rivoluzionari metodi educativi, Korczac – che non si è mai sposato e non ha avuto figli – fa da padre ai 200 bambini che vivono nel suo orfanotrofio, crescendoli all’insegna della comprensione e della libertà di pensiero. Contro il parere della famiglia, Misha si offre come volontario nell’istituto e intanto, proprio sui banchi della facoltà di pedagogia, incrocia lo sguardo limpido di Sophia, una bellissima studentessa che condivide i suoi sogni. Finché un giorno uno striscione minaccioso compare sull’ingresso: ”Via gli ebrei dall’università”. Le lezioni del dottore si interrompono bruscamente, e mentre un muro di mattoni separa il ghetto dal resto della città invasa dai nazisti, Misha e Korczac rischiano ogni giorno la vita per procurarsi scorte di cibo e garantire la sopravvivenza ai bambini.

Quando i venti di guerra travolgono Varsavia, Sophia, che con i suoi capelli biondi può spacciarsi per ariana, è l’unica ad avere una possibilità di fuga. Ma che ne sarà di Misha, Korczac e dei loro bambini?
Nel ghetto di Varsavia vivevano 400.000 ebrei. Solo uno su cento riuscì a sopravvivere. Questo romanzo si basa sulla storia vera di Misha e Sophia, e sul diario di uno dei più grandi uomini dell’epoca: il dottor Janusz Korczac.

RECENSIONE

Il bambino non sarà una persona domani, è una persona oggi. Un bambino ha diritto all’amore e al rispetto. Ha il diritto di crescere e svilupparsi. Un bambino ha il diritto di essere se stesso e di essere preso sul serio. Ha diritto di fare domande e di opporsi all’ingiustizia. (Dr. Janusz Korzack)

La lettura di questo romanzo mi ha profondamente commossa.
E’ impossibile attraversare quel periodo nero della storia senza sentirsi toccati, increduli, afflitti, sconfitti, arrabbiati, impotenti. Un colpo al cuore, un dolore muto, la necessità di dare, quanto più possibile, a quelle voci spezzate, la dignità di essere ricordate, per strapparle dall’abisso dell’oblio, dall’abisso della crudeltà più immane che si sia potuta verificare. Ero consapevole, iniziando questo romanzo, che sarei stata chiamata ad affrontare emozioni molto forti, ed ora passo a voi questo testimone, perché ogni esistenza cancellata dalla ferocia nazista, deve essere per noi dovere morale di racconto e memoria.

Ne Il dottore di Varsavia viene raccontata la storia di Misha e Sophia, due giovani studenti polacchi che si conoscono ed innamorano mentre il mondo da loro conosciuto e in cui sono cresciuti progettando il proprio futuro, sta drammaticamente cambiando. I cambiamenti arrivano con cadenza graduale, perché si sa, rivoltare tutto e subito non porta ai risultati che si intendono raggiungere, mentre, sottraendo una cosa alla volta, un diritto alla volta, una libertà alla volta, quasi ci si “abitua” ed “adatta”, sentendo come inevitabile quello che sta accadendo. I due si incontrano la prima volta in Università, entrambi seguono un corso del dottor Janusz Korzac che, oltre ad essere un insegnante, dirige un orfanotrofio dove accoglie bambini orfani e/o bisognosi, circa duecento, mettendo in pratica i suoi metodi educativi e amandoli profondamente, facendoli crescere nella comprensione, nella libertà di pensiero, rispettando i loro sentimenti e le loro opinioni.

La sua filosofia è che non si può imparare niente su un bambino leggendo un libro o ascoltando qualche professore. Bisogna trovare la propria strada per prendersi cura dei bambini, imparando a conoscerli uno per uno.

I bambini che vivono con Korczak sono felici, perché sanno di essere amati, rispettati, compresi, ascoltati, protetti.

Misha comprende di voler diventare a sua volta insegnante e seguire gli studi praticati da Korzac, e si offre come volontario nell’istituto. Sophia condivide lo stesso sogno di Misha, e i due coltivano un amore sincero, fortissimo.

Siamo a Varsavia, il romanzo copre un arco temporale che va dal maggio 1937 al maggio 1945. Accanto alle vicende di Misha e Sophia, vengono narrate quelle del dottor Janusz Korzac, pedagogo molto apprezzato, stimato e conosciuto nel Paese, per i suoi sistemi educativi e i suoi studi, insieme ai suoi bambini.

In apertura del romanzo (1945), gli occhi di Misha, ci proiettano la visione della città, della sua città, della città che ha lasciato tre anni prima, separandosi da Sophia, trovandola ora in macerie, completamente distrutta e desolata, un paesaggio spettrale, irriconoscibile, devastato. Nulla è più come lo ricorda, ogni cosa è stata spazzata via.

Si mossero lentamente lungo uno stretto percorso tra cumuli di mattoni e calcinacci, con una ruota che sobbalzava sulle macerie. I ricchi negozi e gli uffici del distretto commerciale erano spariti; al loro posto rovine e una valanga di pietrisco e polvere. La neve portata dal vento aveva imbiancato le macerie, le rovine annerite dei muri che stagliavano come lapidi in un cimitero d’inverno. Non c’era anima viva, da nessuna parte.

Seguiamo con sgomento silenzio i passi di Misha, che fa parte del gruppo di ricognizione della Prima armata polacca sotto il comando russo, quasi tratteniamo il respiro. Volta lo sguardo su ciò che era e che ora non esiste più. Arriva a Ulica Krochmalna e scorge quel che resta dell’orfanotrofio,

Sentì una stretta al cuore, in mezzo al silenzio. Niente voci di bambini che gridavano e ridevano giocando in cortile. (…) Con un dolore al petto ripensò all’ultima volta che aveva visto il dottore e i bambini, nella casa di Ulica Sienna, dentro le mura del ghetto. Era stato fuori tutto il giorno, a lavorare per i tedeschi con una squadra di operai, ripulendo dai vetri rotti la caserma del quartiere Praga, con una guardia annoiata a sorvegliarli, che a stento reggeva il fucile. Quando era tornato all’orfanotrofio, nel tardo pomeriggio, i bambini non c’erano più. Sul tavolo, tra sedie scostate e rovesciate, c’erano ancora tazze di pane e latte bevute a metà, ormai fredde. Gli sciacalli avevano già saccheggiato l’edificio, squarciando cuscini e rovesciando il contenuto dei cassetti nell’altra parte della piccola sala da ballo del vecchio circolo per uomini d’affari, che nell’ultimo anno e mezzo era servita da dormitorio, aula scolastica e refettorio per duecento bambini. Prima della guerra aveva passeggiato con Sophia per Varsavia, verso Plac Grzybowski, facendola ridere con i racconti di quei bimbi birichini e saggi, così pieni di vita. Adesso invece le lacrime gli solcavano il viso perché i piccoli erano stati portati via, perché non era stato lì per salvarli.

Da questo momento, si torna indietro, al maggio del 1937 e ci viene narrata tutta la storia. Da quando al dottor Korczac tolgono il programma radiofonico annullando il suo contratto, programma che teneva sintonizzati milioni di persone in tutta la Polonia, alla destituzione dell’incarico all’Università, alla perdita dell’orfanotrofio per bambini polacchi che aveva aperto perché “un ebreo non può più prendersi cura di bambini polacchi”, vedendosi licenziare dal consiglio di amministrazione, al momento in cui compare un cartello abominevole con su scritto “Via gli ebrei dall’università”. Se in un primo momento, la reazione è quella di esorcizzare il più possibile il pericolo imminente minimizzando l’accaduto, con il passare del tempo non si può più credere che quanto si stia verificando non voglia portare ad un’unica conseguenza: eliminare tutti gli ebrei. Quello che riesce a compiere il dottore Korczac, chiamato anche Pan Doktor, ha del miracoloso. Nei primi anni della messa in attuazione delle leggi di Norimberga e delle conseguenti restrizioni imposte agli ebrei, ottiene il permesso di far trascorrere ancora una estate (1940) al campo estivo di Mala Roza ai bambini, e nonostante sia prevista la pena di morte per chi aiuta gli ebrei ottiene anche provviste di cibo. Varsavia è occupata. Nei quartieri ebraici, fuori dai negozi, si raccomanda ai non ebrei di non avvicinarsi perché tra gli ebrei c’è il tifo. Un primo tentativo di mettere i polacchi contro gli ebrei, aizzare e seminare panico, incitando all’odio, al razzismo.

Fin dove si spingerebbero i nazisti, pur di isolare gli ebrei?

Inizia ad ergersi in tutta la città un muro. Un muro di mattoni rossi che chiude strade, edifici, cortili. Un muro che non si alza tutto insieme, ma con relativa lentezza, mattone dopo mattone, dopo mattone. Si continua a negare (e si continuerà a farlo a lungo) che sta nascendo la costruzione di un ghetto in cui segregare i polacchi ebrei e dividerli dal resto della popolazione. Anche in questa occasione, il cuore di Korczac è per i bambini, anche stavolta è accanto a loro,

I bambini si mettono in fila per due nel cortile, con i cappotti invernali e le scarpe buone, portando con sé quello che possono, tutto ciò che secondo Korczac sarà essenziale nel ghetto, come vasi di fiori, quadri, giocattoli, libri. L’aria è fredda e l’umidità lì impregna fino alle ossa. Korczac porta fuori la nuova bandiera dell’orfanotrofio. Da una parte c’è una stella a sei punte blu su un guidone di sera bianca, che i bambini possono portare con orgoglio. Lui ancora si rifiuta di mettersi la fascia al braccio, con la stella di David trattata come un marchio di infamia.

Cos’è il ghetto?

… pochi chilometri quadrati di inferno con dentro mezzo milione di persone che lentamente muoiono di fame.

Uno degli aspetti che maggiormente mi ha colpita leggendo questa storia è il sentimento di speranza che, nonostante tutto, nonostante la violenza, la mortificazione, la fame, la crudeltà, conserva Korczac e che infonde nei bambini. Non odia quei mostri, non coltiva sentimenti di odio e non li fa coltivare ai bambini. Al contrario, fino alla fine, infonde insegnamenti di amore, dice loro che l’amore non muore mai. Guardando una guardia,

Il giovane alza gli occhi e gli rivolge uno sguardo gelido. Korczac gli sorride. Nemmeno adesso permetterà a sé stesso di odiare, di diventare come loro.

Nonostante gli venga offerta la possibilità di scappare, il dottor Janusz Korczac resta. Resta con i bambini. Resta con loro fino al terribile momento in cui nazisti decidono di deportarli dal ghetto. Dopo averli preparati, insieme all’amica e assistente Stefa, si mette a capo della fila ordinata con in braccio la piccola Romcia e tenendo per mano Szymonek, e senza indossare la fascia al braccio.


“Posso darvi una cosa sola: il desiderio di una vita migliore, una vita di verità e giustizia. Anche se oggi può non esistere, potrà arrivare domani.” (Janusz Korczac)


Non deve essere stato semplice per Elisabeth Gifford scrivere questo romanzo. Vorrei poterla ringraziare per il lavoro che ha svolto, per averci restituito le voci di Misha e Sophia, dei bambini di Korczac e di Janusz Korczac stesso, per avermi spinta ad approfondire la figura umana e professionale di questo grande uomo (molto presto acquisterò i suoi scritti, in particolare Diario dal ghetto) , per aver ricordato quanto sia importante continuare a conoscere la storia di persone alle quali è stato tolto tutto, tranne la memoria di chi è riuscito a scampare all’orrore e ha potuto testimoniarlo.


Credo sia superfluo, a questo punto, dirvi che ne consiglio la lettura. Fatemi sapere le vostre impressioni, così potremo confrontarci.


Alla prossima recensione!