Da oggi in libreria,
“Nel profondo“, di Daisy Johnson,
edito da Fazi Editore.
SCHEDA TECNICA
TRAMA
Gretel lavora come lessicografa: aggiorna le voci del dizionario, ragionando quotidianamente sul linguaggio, attività che ben si addice alla sua natura riflessiva e solitaria. Ha imparato che non sempre esistono vocaboli precisi per indicare ogni cosa, almeno non nel linguaggio di tutti; ma quando era piccola, e viveva su una chiatta lungo il fiume, lei e sua madre parlavano una lingua soltanto loro, fatta di parole ed espressioni inventate, e allora anche i concetti più astratti trovavano il proprio termine di riferimento, come il Bonak, definizione di tutto quello che più ci fa paura. Adesso sono passati sedici anni, esattamente la metà della vita di Gretel, da quando sua madre l’ha abbandonata, e le parole di quel codice stanno lentamente scolorendo, perdendosi nei fondali della memoria. Ma una telefonata inattesa arriverà a riportarle a galla, insieme ai ricordi di quegli anni selvaggi passati sul canale, dello strano ragazzo che trascorse un mese con loro durante quel fatidico ultimo anno, di quella figura materna adorata e terribile con la quale è arrivato il momento di fare i conti.
I personaggi, i luoghi, la memoria, il linguaggio: ogni cosa è fluida e mutevole, come le acque torbide del canale che fanno da ambientazione a questa storia magnetica. Attraverso una scrittura dalla precisione quasi inquietante, che le è valsa una candidatura al Man Booker Prize a soli ventisette anni, Daisy Johnson si serve di riferimenti culturali che vanno dal mito classico al folklore nord-europeo e costruisce un racconto di rara suggestione, in cui risalire le correnti del passato è l’unico modo per costruire la geografia del presente. Nel profondo è un romanzo già in grado di emanare la propria mitologia.
RECENSIONE
Non facciamo altro che scavare e riesumare cose che sarebbe meglio restassero sepolte. A volte s’insinua nei discorsi una parola del passato, e ne restiamo annientate. È come se il tempo non fosse mai trascorso, come se non avesse avuto peso. Torniamo a quando avevo tredici anni e tu eri ancora mia madre, terribile e meravigliosa. Torniamo in quella barca sul fiume a parlare in una lingua che nessun altro conosce. Una lingua che è soltanto nostra.
Una figlia e una madre. Una figlia, una madre e un fiume. Una figlia, una madre, un fiume e una lingua solo loro. Una figlia, una madre, un fiume, una lingua solo loro e il Bonak.
Gretel è la protagonista di questo romanzo. Vive vicino a Oxford, in un luogo solitario, volutamente. Fa la lessicografa, aggiorna le voci sul dizionario e da qualche tempo ha ritrovato sua madre, Sarah, la quale, sedici anni prima, inspiegabilmente, l’ha abbandonata, senza più dare alcuna notizia di sé. Gretel, all’epoca, aveva solo tredici anni e fino a quel momento, l’unica vita che conosceva era quella con Sarah, lontana dal mondo circostante, in una barca in riva al fiume, legate da un legame simbiotico e da una lingua soltanto loro.
Gretel, ha accusato fortemente il peso di questo abbandono, a cui hanno fatto seguito servizi sociali e famiglie adottive, così come la presa di coscienza di essere cresciuta in modo diverso rispetto agli altri, la difficoltà ad inserirsi perché derisa e additata come “la straniera” o “l’inventrice”, sembri una selvaggia, a causa del suo bizzarro modo di parlare.
In tutti quegli anni, non mi avevi mai detto che stavi inventando una lingua che non esisteva, e che poteva funzionare solo in quel momento, solo tra noi. Non mi avevi avvertita.
La rabbia, il livore, il rancore accumulati in tutti questi anni, un pantano di incomprensioni dividono Gretel da Sarah, decenni di interrogativi che hanno affollato instancabilmente la sua mente, l’animo di una figlia che ha continuato, nonostante tutto, a “dare la caccia” a sua madre, forse per trovare, finalmente, la pace.
È normale che i figli lascino i genitori. È nell’ordine delle cose. Si suppone che uno l’abbia accettato, quando diventa genitore, in un modo o nell’altro. Ma non è normale che i genitori lascino i figli.
Quando la ritrova, si rende conto di non avere più davanti la madre che ricordava, così forte, infinita, immortale, ma una donna invecchiata, affetta da Alzheimer, incapace di badare a se stessa. Ma Gretel ha bisogno di spiegazioni. Ha bisogno di capire. Ha bisogno di sapere cosa successe in quell’ultimo anno trascorso insieme su quella barca sul fiume, mentre si proteggevano a vicenda dal Bonak,
Il nome che davamo a tutte le cose che ci facevano paura.
Con un costante cambio di registro temporale, che ci porta nel passato, poi al presente, per tornare nuovamente indietro, e due voci narranti, la narrazione stessa, ricca di suggestione, metafore e mitologia (fortissima è l’eco del mito di Edipo), di una scrittura precisa e fortemente lirica, va a comporre un puzzle al principio apparentemente irrisolvibile, con l’inserimento di altri personaggi (pochi, ma determinanti) che svolgono una funzione specifica nell’intreccio, anche se il lettore la comprenderà solamente sul finale.
Questa affannosa ricerca della verità da parte di Gretel, riporterà in superficie ricordi faticosamente sopiti nella memoria, dolorosi, ma ineluttabili.
La ricerca parte necessariamente da alcuni interrogativi.
Perché Sarah l’ha abbandonata? Perché vivevano su una chiatta in riva al fiume lontane da tutto e tutti? Cosa successe il fatidico giorno in cui decise di lasciarla sola? Cosa c’entra il ragazzo, Marcus, che per un mese si trova a vivere insieme a loro, secondo il loro codice di comportamento primitivo, selvaggio, vicini a quell’acqua che riesce a intorbidire tutto quello che è chiaro?
Nel profondo é un romanzo di esordio sconvolgente, architettato con diabolica (ed intelligente) minuzia, dal principio alla fine. È stata una esperienza di lettura singolare, inaspettata, a tratti inquietante, destabilizzante, emozionante, disturbante. Quello che il libro ti lancia in faccia, addosso, senza filtri, sono tematiche delicate e difficili, trattate con una maturità di scrittura e di stile da restare folgorati.
Ho deciso di non scrivere nell’immediato la recensione, ho preferito aspettare qualche giorno perché, girata l’ultima pagina, dovevo veramente riprendermi, fare sedimentare ciò che provavo, elaborare un pensiero quanto più possibile coerente. Sul momento (così come anche durante la lettura) mi sentivo confusa, frastornata, persa nel vortice della storia che non comprendevo dove stesse andando a parare, mi risultava difficile perfino stabilire se e quanto stessi apprezzando la storia.
Se mi ha scossa? Si. Mi ha afferrata con una presa fredda e salda portandomi in un labirinto intricato, in cui vedere l’uscita sembrava un miraggio. Quasi non riuscivo a stabilire se mi fosse piaciuto o meno, ci credete? A mente più lucida, credo di sapere perché. Nel profondo, senza che tu te ne accorga, senza che tu ne sia consapevole pienamente, si insinua nella tua testa e nelle vene ed inizia a scorrere dentro di te. Nel bene e/o nel male è un romanzo che innesca una reazione, non ti lascia indifferente, ti scuote e percuote, e non esagero utilizzando questi termini.
La trama me l’aspettavo diversa, è vero. Ma questa aspettativa mancata non è sinonimo di delusione, solo di stupore a pensarci bene. Tanto stupore.
Daisy Johnson costruisce una struttura su più livelli, con più storie, mescolando ed equilibrando suggestione (come già detto) e angoscia, mitologia (non posso inserire i riferimenti altrimenti vi sciuperei la lettura) e fantasia, immagini crude e sentimenti intimi. Il lettore avverte tutta la fatica dei personaggi per scandagliare fino in fondo nella memoria del passato affinché, finalmente, si possa costruire il presente.
Le storie che si intrecciano e che sembrano non c’entrare nulla l’una con l’altra, ti tengono in sospeso, con un pronunciato cipiglio, tipico di chi non riesce a cogliere qualcosa, di chi vede poco chiaro. E poi, il colpo finale, in cui tutti i pezzi del puzzle trovano il loro posto.
Il libro ti tiene all’erta, arriva a fare vacillare le tue sicurezze per insinuare il seme della riflessione e dell’analisi. Ci sono state pagine che mi hanno turbata molto, urtando la mia sensibilità, si, ci sono state. Ed è stato questo aspetto a spingermi a schiarire le idee prima di scrivere la recensione.
Lo reputo, nel suo genere, un romanzo incredibile, di cui non saprete cosa pensare fino alla fine!
Un talento, quello di Daisy Johnson, indiscutibilmente notevole, che non si impara e che va riconosciuto a gran voce.
Abbandono, rapporto genitori – figli e viceversa, memoria, linguaggio, diversità, paura dell’ignoto, consapevolezza del passato in una chiave originale e invadente, destabilizzante. Questo e molto altro è Nel profondo.