RECENSIONE: “Più donne che uomini” di Ivy Compton Burnett (Fazi Editore)

Cari lettori e care lettrici de La Parola ai Libri,
la recensione di oggi riguarda un romanzo di cui si è discusso molto, con pareri contrastanti: Più donne che uomini di Ivy Compton Burnett, pubblicato da Fazi Editore.



SCHEDA TECNICA

Autore: Ivy Compton-Burnett
Titolo: Più donne che uomini
Collana: Le strade
Numero Collana: 384
Pagine: 262
Codice isbn: 9788893253833
Prezzo in libreria: € 19
Codice isbn Epub: 9788893255752
Prezzo E-Book: € 9.99
Data Pubblicazione: 21-03-2019

TRAMA

Con Più donne che uomini, uno dei suoi romanzi più apprezzati, torna nelle librerie italiane Ivy Compton-Burnett, grande autrice del Novecento inglese che ha raccontato i rapporti fra uomini e donne e le dinamiche familiari con uno stile unico e una sagacia senza pari, conquistando generazioni di lettori, ma soprattutto di lettrici.
In una prospera cittadina inglese a inizio Novecento, un grande istituto femminile è diretto da Josephine Napier, un generale ingioiellato: alta e austera, un viso regale, «vestita e pettinata in modo da esibire i suoi anni, anziché nasconderli». Impeccabile in ogni gesto e in ogni parola, è il punto di riferimento imprescindibile per tutti, le studentesse, il corpo docente e i suoi familiari: il marito Simon, oscurato dalla personalità della moglie, il figliastro Gabriel, il fratello Jonathan, vedovo calato nel ruolo dell’anziano zio e amante segreto ma non troppo di Felix Bacon, giovane sfaccendato. Al gruppo si unisce presto Elizabeth, una vecchia conoscenza di Josephine che viene assunta come governante e porta con sé la figlia Ruth. Le giornate sono scandite da una serie di rituali obbligati e da dialoghi in cui si dice tutto e niente, botta e risposta infiocchettati che in realtà nascondono universi interi. Finché un tragico evento inaspettato fa precipitare ogni cosa, dando vita a una reazione a catena che sconvolgerà le vite di tutti e porterà a galla il lato oscuro di ognuno. Nessuno è chi dice di essere, e dietro alla spessa patina del codice vittoriano si nascondono segreti celati per intere esistenze. Verranno fuori tutti, uno dopo l’altro.
Pagine indimenticabili e soppesate perfettamente, in cui l’umorismo pungente si mescola con la tragedia, e le piccole interazioni quotidiane con i grandi drammi della vita.


RECENSIONE

Josephine Napier, direttrice di un grande istituto femminile in una prospera cittadina inglese, era una donna di cinquantaquattro anni, alta e austera, con qualche ciocca grigia tra i capelli ramati, grandi occhi nocciola, un viso regale, dai tratti semplici, deliberatamente schietta e modesta, mani sorprendentemente ingioiellate, vestita e pettinata in modo da esibire i suoi anni, anziché nasconderli.

Siamo nei primi anni del Novecento e il luogo principale, direi esclusivo, in cui le vicende si svolgono è un istituto femminile in una cittadina inglese, diretto da Josephine che, a tutti gli effetti, si può considerare il fulcro del romanzo. È una scuola ben avviata, adesso, ma quando la donna decise di intraprendere questa strada, aveva un esiguo capitale e solo una dozzina di allieve. Un grande avventura, un grande rischio. Già da questo spirito non dovrebbe risultare difficile dedurre quale sia la personalità di Josephine. Il suo pensiero circa l’attività che svolge ci viene servito attraverso queste parole,

Chi gestisce una scuola, costruisce il futuro. Lungi da me la responsabilità di non svolgere al meglio un mestiere del genere. (…) Strano pensare che sotto il nostro stesso tetto si compiano i destini di tante persone – le cui esistenze, per noi, restano un libro chiuso. (…) La ragione più profonda fu il mio amore per l’insegnamento; la mia convinzione che quel che si semina nei giovani darà i suoi frutti nel futuro; il desiderio appassionato di spargere con le mie mani alcuni di quei semi.

Una figura indiscutibilmente interessante, tratteggiata con brillante scelta stilistica, e che oscura il resto dei personaggi quando lei si trova sulla scena. Il romanzo si apre con la presentazione del corpo insegnanti dell’istituto, di rientro dalla pausa e in procinto di iniziare il nuovo semestre, composto da sole donne, ognuna con una personalità differente a caratterizzarle, come possiamo intuire. Affermare che siano sole donne a costituire il corpo insegnanti non è del tutto esatto, infatti, apprendiamo che ne fa parte anche Simon, il marito di Josephine, che aveva l’aria di seguirla a una distanza maggiore di quella che li separava nella vita. Era un uomo alto e magro, che aveva la sua stessa età, ma dava l’impressione di essere vecchio e fragile: tratti delicati, naso aquilino, occhi grigi e inquieti e una testa lunga e stretta che si allargava molto all’altezza della fronte.

A completare il quadro dei personaggi che si susseguono entrando in scena, troviamo il figliastro di Josephine, Gabriel, un giovane di ventitré anni, nipote di Josephine e figlio di Jonathan, da lei adottato così presto – ai tempi in cui suo padre era tornato da un soggiorno all’estero, vedovo e con lui neonato – che egli non lo ricordava neanche. Era un giovanotto alto e di bell’aspetto, con i capelli color rame e movenze nervose, che tuttavia non intaccavano la sua fierezza, e i suoi modi rigidi e affettati.

Jonathan Swift è il fratello di Josephine e occupa un ruolo molto rilevante nel romanzo. E’ un uomo di settant’anni che in gioventù si era votato allo studio delle lettere, la sua opera non rispecchiava il gusto del tempo, e dunque non poteva aspettarsi di raggiungere il successo in vita.

Nel frattempo, non perdendosi d’animo, condivide la sua vita, da ben ventidue anni, con Felix Bacon, un uomo con molti meno anni di lui, di estrazione sociale superiore, di aspetto gradevole, ma poco avvezzo al lavoro.

Dopo molti anni, ricompare all’improvviso una vecchia conoscenza di Josephine, Elizabeth, accompagnata da sua figlia. È in gravi difficoltà economiche così Josephine la assume come governante. Una entrata in scena inaspettata e che ci fa chiedere fin da subito cosa comporterà, quali saranno gli sviluppi e le conseguenze. Ad un certo punto è come se qualche maschera debba essere abbassata per mostrare il volto reale di uno o più personaggi, facendoci dubitare un po’ di tutti, in un gioco di apparenze e scheletri nell’armadio da rivelare.

Parlare di questo romanzo, credo, non sarà semplice, ma ho tutte le intenzioni di provare ad esprimere il mio parere su un’opera che, si dica quello che volete, ha un potenziale, ha dei punti di forza rilevanti, fornisce un quadro interessante circa diversi aspetti umani e sociali dell’epoca e del luogo in cui è ambientato, presenta uno stile non sempre facile da apprezzare, perché la struttura è composta prevalentemente o quasi esclusivamente da dialoghi, le descrizioni e la narrazione sono ridotte ai minimi termini, con un conseguente rallentamento nella lettura e la necessità di tenere alta la concentrazione a ciò che sta accadendo. Se è vero, quindi, che questo possa indurre nel lettore una sensazione di lentezza e, quasi, di fatica, è altrettanto vero che da questa scelta da parte della scrittrice deriva una esaltazione, una enfatizzazione, al contempo, di questo stile, riuscendo a stimolare in noi l’immaginazione e la facoltà di dedurre da soli ciò che non ci viene raccontato esplicitamente. Sicuramente, il gusto personale influisce e non poco circa il giudizio da dare sulla lettura, però penso che sia oggettivo riconoscere il valore letterario di questo romanzo, riconoscere quanto siano sottili, ironici, spassosi, provocatori molti scambi tra i personaggi, scambi colmi spesso di sottintesi, che vanno a definire, pagina dopo pagina, personaggi stessi e le loro peculiarità. Dialoghi ricchi anche di sfumature e sfaccettature da estrapolare, facendo attenzione a non tagliarsi, perché la lama celata dietro un’apparente rigidità dettata dal buon costume vittoriano è molto, molto affilata. Non ci deve stupire la condotta di Josephine che, in tutto e per tutto, sembra incarnare i canoni preposti dall’etichetta del tempo, sempre impeccabile, con le parole giuste pronte all’uso, mai scomposta. Eppure, eppure. È impossibile non leggere alcuni passi senza utilizzare un tono sarcastico, ironico e pungente, atto a sembrare casuale, ma indubbiamente studiato.

Tendo sempre, lo riconosco, ad esaltare gli elementi positivi in ogni lettura che intraprendo, certo non mancando di fare menzione a quelli negativi, qualora vi incappassi. Comprendo chi ha riscontrato difficoltà con il romanzo, e comprendo chi si è calato, al contrario, completamente nella storia, come ho fatto io, lo ammetto, sentendomi a mio agio e trovando piacevole l’originalità di Ivy Compton Burnett, che ha sfidato la prevedibilità e l’uso convenzionale della forma, probabilmente traendo ispirazione dal classicismo del teatro, mescolando con eleganza intrighi con apparente calma e compostezza, inserendo imprevisti atti a sconvolgere l’ordine costituito delle cose, senza appesantire l’atmosfera, ma mantenendo intatto un tono di leggerezza che non è sinonimo di superficialità.

Attraverso i dialoghi dei personaggi scaturiscono, secondo me, importanti questioni di carattere sociale e politico, nonché culturale del periodo, come ad esempio l‘insegnamento riservato alle donne, e mal visto o chiacchierato se svolto da uomini, perché considerata una mansione poco importante, quasi degradante.

«È sciocco ritenere che un uomo non possa guadagnarsi da vivere insegnando alle ragazze», disse Josephine. «Le donne non si vergognano di certo a insegnare ai maschi; e le due cose si equivalgono».

Ne consegue il dibattimento sull’istruzione alle donne.

C’è da stupirsi che le ragazze ancora studino. So che la gente non ha mai creduto all’importanza dell’istruzione superiore per le donne: ma a mio giudizio, non crede all’istruzione in genere. (…) Sono scandalizzato dall’atteggiamento che hanno i genitori nei confronti delle loro figlie femmine. Si stupiscono sempre quando la loro educazione viene presa sul serio.

La posizione delle donne, ancora inferiore rispetto a quella maschile di prestigio, potere e considerazione. Tutti aspetti che considero brillanti e fondamentali, di cui discorrere a lungo e su cui fare una attenta riflessione, contestualizzando, ancora una volta, l’epoca e quindi la portata di tali tematiche (ricordiamo che questo romanzo è stato pubblicato nel 1933).

Il loro atteggiamento lascerebbe intendere che noi donne siamo la metà inferiore dell’umanità.

Altri temi del romanzo, che potremmo definire audaci, così come lo sono quelli finora discussi, sono anche l’omosessualità, il rifiuto alla maternità, il ruolo della donna, la disparità sociale.

«Comunque l’istruzione delle nostre figlie, ormai, ci costa quasi quanto quella dei loro fratelli.»

«Ma che barbarie inorgoglirsene! Noi puntiamo all’eguaglianza vera…»


Non è un romanzo per tutti, nella moderna accezione del significato. È un libro per gli amanti dello stile classico ispirato dal teatro mescolato alla commedia, per chi apprezza anche l’arguzia e non si ferma al detto, ma ricerca il non detto, a chi ama i romanzi taglienti, a chi sa cogliere sfumature e doppi sensi, a chi piacciono i romanzi che vertono alla sfida, allo smascheramento, al rovesciamento delle regole stabilite dalla società e dalla cultura dominante in un dato periodo storico. In Piú donne che uomini questa sfida è lanciata contro la morale, spesso cinicamente ipocrita, e contro una finta condotta di rettitudine, di buon costume, che ha caratterizzato la già menzionata epoca vittoriana.


A me piacerebbe leggere ancora altro di questa scrittrice inglese, da tempo assente dagli scaffali delle librerie prima che Fazi decidesse di riportarla all’attenzione dei lettori, una scrittrice tanto apprezzata, tra i molti, da Virginia Woolf.


Penso di avervi detto proprio tutto! Come sempre, fatemi avere il vostro parere in merito.


Alla prossima recensione