RECENSIONE: “Il capofamiglia”, di Ivy Compton Burnett (Fazi Editore)

Autrice: Ivy Compton Burnett; Titolo: Il capofamiglia; Casa editrice: Fazi Editore; Collana Le strade; Traduzione: Manuela Francescon; Pagine 348; Codice isbn: 9788893253840; Prezzo €19,00; Data di pubblicazione: 14/05/2020.


TRAMA

Il patriarcato trova la sua più fedele espressione nella figura di Duncan Edgeworth: padre tirannico, anaffettivo e lunatico, è il capofamiglia per antonomasia. Attorno a lui si muovono, atterriti o solleticati dal desiderio di sfida, i membri della sua famiglia: la moglie Ellen, naturalmente dimessa e timorosa, le due figlie ventenni Nance e Sybil, tanto egocentrica e sarcastica l’una quanto affettuosa e remissiva l’altra, e infine il nipote Grant, giovane donnaiolo dotato di grande spirito, costantemente in competizione con lo zio, di cui è il perfetto contraltare. Nella sala da pranzo degli Edgeworth va in scena quotidianamente una battaglia su più fronti: sotto il velo di una conversazione educata, si intuiscono tensioni sotterranee e si consumano battibecchi, giochi di potere, veri e propri duelli a suon di battute glaciali: «non stiamo semplicemente facendo colazione». Fino a quando la famiglia viene colpita da un lutto improvviso, che mescola le carte in tavola innescando una reazione a catena; strato dopo strato, ognuno dei personaggi svelerà la sua vera natura, in un crescendo di trasgressioni che comincia con l’adulterio e culmina con l’efferatezza. Acume, sagacia, drammi familiari e dialoghi al vetriolo: il meglio di Ivy Compton-Burnett concentrato in un romanzo finora inedito in Italia, che lei stessa considerava il suo preferito. Un tassello importante nella produzione di un’autrice fondamentale del Novecento inglese, amata dai più grandi scrittori: nei suoi diari, Virginia Woolf definiva la propria scrittura «di gran lunga inferiore alla verità amara e alla grande originalità di Miss Compton-Burnett».

RECENSIONE

Lui si è comportato come un dio in terra, e noi come tale lo abbiamo trattato. Ecco cosa succede quando nessuno critica le tue azioni. Gli dèi vogliono essere idolatrati e ci riescono; è così che si assicurano il monopolio sulla saggezza.

Natale 1885. Una famiglia, appartenente alla piccola nobiltà inglese (gentry), si riunisce intorno al tavolo della sala da pranzo per scambiarsi i regali durante la colazione. Iniziamo dai primissimi scambi a relazionarci con ogni membro della casa e a farci un’idea della loro personalità: Duncan Edgeworth, l’autoritario e sprezzante capofamiglia, la remissiva e succube moglie Ellen, le loro due figlie, Nance di ventiquattro anni e Sybil di diciotto, e il nipote di Duncan, Grant, figlio di un suo fratello defunto, di venticinque. A suon di scambi taglienti, cinici e tesi, che ci permettono di comprendere le dinamiche e il tipo di relazioni che intercorrono tra i personaggi, la vita trascorre nella normalità dell’equilibrio creatosi in questo nucleo famigliare, finché un inaspettato lutto colpisce gli Edgeworth, lasciando tutti sgomenti, compresa la comunità di cui fanno parte e frequentano. Non è che il primo di molti colpi di scena cui assisteremo durante lo svolgere delle vicende, perché man mano che porteremo avanti la lettura, il ritmo del romanzo avrà caratteristiche sempre più ambigue, fino ad assumere sfumature del giallo, tra matrimoni, adulteri, scandali e atti deplorevoli e criminali. Ciò che ritenevamo di sapere su un personaggio si rivelerà errato, le nostre opinioni si capovolgeranno in conseguenza alle rivelazioni cui assisteremo, cambieremo ripetutamente opinione, perché ognuno di loro mostra solo ciò che vuole mostrare, e non il suo vero modo di essere, calzando a pennello il vestito di foggia espressamente vittoriana, fatta di perbenismo e apparenze. Non è importante che accada qualcosa, quanto avere l’abilità di tenerla nascosta, mettendo a tacere possibili scandali e pettegolezzi. Ma le maschere saranno costrette a cadere, prima o poi, una dopo l’altra.

Viene sempre il momento in cui uno si rivela diverso da come l’altro lo immaginava, un momento dopo il quale le cose non saranno più le stesse.

Nello scorrere di questo flusso ininterrotto di parole emerge non solo la vita famigliare degli Edgeworth, ma anche tutta una serie di scandali, piccoli e grandi, vicende matrimoniali discutibili, vere e proprie beghe ereditarie, tragedie e pettegolezzi, passioni tenute a lungo nascoste, con una tensione che si evolve in crescendo fino ad intrecciarsi con un finale degno del grande lavoro prodotto da Ivy Compton Burnett.


Il capofamiglia è il secondo romanzo scritto da Ivy Compton Burnett, pubblicato per la prima volta nel 1935.

Come in Più donne che uomini (trovate la recensione tra gli articoli del blog), anche in questo romanzo, la scrittrice inglese non fa sconti alla società inglese di provincia, tratteggiandone un’istantanea vivida, scavando fin nel profondo di quel perbenismo vittoriano di tardo ottocento, disvelandone tutta l’ipocrisia imperante. Ho riscontrato nuovamente (dico nuovamente sempre prendendo come riferimento il precedente romanzo di Ivy Compton Burnett che ho letto) una sorta di denuncia sociale volta, quasi, a ridicolizzare (per fare un esempio) l’iniquo principio di passaggio ereditario del patrimonio al primo maschio della famiglia; nel caso de Il Capofamiglia, Duncan ha due figlie femmine, per cui non erediteranno la casa, che andrà, invece, a suo nipote Grant, essendo il parente maschio più prossimo.

Adoperando, per i tempi, una scelta narrativa inconsueta e spiazzante, rivoluzionaria se vogliamo, decisamente lontana da ciò che la tradizione del romanzo adoperava e su cui si basava, Ivy Compton Burnett si distingue nel panorama letterario in maniera inequivocabile.

Il romanzo, infatti, è composto quasi esclusivamente da dialoghi (come in Più donne che uomini), la presenza di un narratore è rara e interviene solo per fornire scarne indicazioni o descrivere fisicamente un personaggio. Questo vuol dire che è il lettore a dover decifrare ciò che accade, è il lettore che deve estrapolare dagli scambi in scena significati e rimandi, il lettore deve leggere anche e soprattutto tra le righe, cogliere il non detto, con enfasi maggiore rispetto al detto, perché è proprio lì che è celata la realtà dei fatti, la realtà delle relazioni, della natura dei legami, dei pensieri intimi e veri, dei sentimenti. Ivy Compton Burnett condisce questo piatto imprimendo, alla maggior parte dei dialoghi, un caratteristico umorismo tutto inglese, freddo, spesso cinico e raggelante, che ci lascia interdetti da una parte, ma più consapevoli dall’altra. A fatica traspare emozione da questi dialoghi, ogni personaggio si rivolge all’altro quasi seguendo un protocollo di maniera, utilizzando un linguaggio prettamente formale, di etichetta, a seconda dei casi e delle circostanze. Spesso sono provocatori, sarcastici, pieni di sottintesi.


Non lasciatevi trarre in inganno da un inizio apparentemente senza fatti.
Si, si potrebbe avere la sensazione che non stia accadendo nulla, in realtà tutto sta per succedere. Una reazione a catena che si spezzerà solo arrivati al finale. Al gran finale.


Ulteriori considerazioni.

Ivy Compton Burnett riesce realmente a portarmi in quel tipo di ambiente che racconta, mi fa scoprire la vera natura dei personaggi e della società dell’epoca, con tutte le contraddizioni che l’hanno contraddistinta. Occorre, è vero, tenere sempre alta la concentrazione e l’attenzione durante la lettura perché, essendo la struttura narrativa costituita da dialoghi, non ci si può concedere di perdere una virgola, però cattura, cattura facilmente, fa immergere il lettore a pieno nelle vicende fino a farlo diventare parte del romanzo, una sorta di coscienza dello stesso.

Sono davvero felice che Fazi abbia deciso di dare nuovamente luce ad un’autrice così importante ed originale della letteratura inglese del novecento e spero che il lavoro di pubblicazione delle sue opere continui, perché il loro valore letterario è immenso.


(ringrazio l’ufficio stampa per la copia omaggio)