TRAMA
Wang Di ha soltanto sedici anni quando viene portata via con la forza dal suo villaggio e dalla sua famiglia. È poco più che una bambina. Siamo nel 1942 e le truppe giapponesi hanno invaso Singapore: l’unica soluzione per tenere al sicuro le giovani donne è farle sposare il più presto possibile o farle travestire da uomini. Ma non sempre basta. Wang Di viene strappata all’abbraccio del padre e condotta insieme ad altre coetanee in una comfort house, dove viene ridotta a schiava sessuale dei militari giapponesi. Ha inizio così la sua lenta e radicale scomparsa: la disumanizzazione provocata dalle crudeltà subite da parte dei soldati, l’identificazione con il suo nuovo nome giapponese, il senso di vergogna che non l’abbandonerà mai. Quanto è alto il costo della sopravvivenza?
Sessant’anni più tardi, nella Singapore di oggi, la vita dell’ormai anziana Wang Di s’incrocia con quella di Kevin, un timido tredicenne determinato a scoprire la verità sulla sua famiglia dopo la sconvolgente confessione della nonna sul letto di morte. È lui l’unico testimone di quell’estremo, disperato grido d’aiuto, e forse Wang Di lo può aiutare a far luce sulle sue origini. L’incontro fra la donna e il ragazzino è l’incontro fra due solitudini, due segreti inconfessabili, due lunghissimi silenzi che insieme riescono finalmente a trovare una voce.
Con una scrittura poetica e potente, in questo romanzo d’esordio Jing-Jing Lee attinge alla sua storia familiare raccontando la memoria dolorosa e a lungo taciuta di una generazione di donne delle quali è stata per decenni negata l’esistenza: una pagina di storia che troppo a lungo è stata confinata all’oblio.
RECENSIONE
Era iniziato tutto con la sua nascita, col nome che le avevano dato. Poi con l’educazione che aveva avuto. E infine, dopo la guerra e l’orrore di quegli anni che avrebbero dovuto essere i migliori della sua vita, le parole di sua madre e la vergogna che si era imposta da sola – oltre a quella impostale dalla famiglia e dal mondo – l’avevano condannata al silenzio, relegandola nell’ombra per il resto dei suoi giorni.
Questa è la storia di una scomparsa. Lenta, violenta. La storia di un silenzio. Lungo, pesante, doloroso. La storia di una memoria. Proterva, coraggiosa. La storia di una speranza. Forte, tenace. La volontà di ritrovare un’identità, di restituire attraverso la verità, una dignità lungamente vilipesa.
Wang Di, “Speranza di un fratello”. Questo è il significato del nome della protagonista del romanzo. Nasce, quindi, già con una negazione, con una identità negata, appunto, il non essere un maschio.
Quando le truppe giapponesi invadono e occupano Singapore (1942-1945), Wang Di ha appena diciassette anni. La sua è una famiglia modesta, lei si dà da fare come può, aiutando in casa, andando al mercato a vendere verdura e uova. Non va a scuola, è una femmina, e alle femmine un’istruzione non serve. Solo ai maschi è concesso poter studiare. La sua esistenza trascorre, tuttavia, normalmente, fino a quando un camion si ferma davanti alla sua casa e i soldati giapponesi la strappano dalle braccia dei suoi genitori.
In più occasioni, si erano sentite voci a riguardo di cose terribili perpetrate dai soldati giapponesi alle donne del luogo, ma se si teneva la testa bassa e non ci si faceva notare, si poteva sperare di passare inosservate. In tanti non volevano credere che i soldati potessero davvero occupare il territorio, fino a quel momento colonia britannica. Eppure, fu ciò che accadde. Prima i saccheggi nei negozi e nelle abitazioni, il cambio del fuso orario, il cambio del nome del luogo, della moneta, i soprusi sulla popolazione. Poi, le case di conforto.
Prima di leggere “Storia della nostra scomparsa” non ero a conoscenza di questa terribile pagina di storia. Ignoravo l’esistenza delle cosiddette comfort woman, donne di conforto, della indicibile violenza che subirono e delle ripercussioni che dovettero affrontare.
Chi erano le comfort woman? Erano ragazze di età compresa tra i 14 e i 20 anni, strappate alle loro famiglie o con l’inganno, ossia con la falsa promessa di essere impiegate per un lavoro alle dipendenze dei giapponesi (come sarte, cuoche, cameriere), o con brutale violenza (come accade alla protagonista del romanzo), per essere ridotte a delle vere e proprie schiave sessuali, costrette a subire stupri, aggressioni fisiche, insulti e uccisioni. Donne costrette a “confortare” i soldati giapponesi, annientarsi, perdere tutto, perdere la propria identità, avviarsi ad una ineluttabile scomparsa. Decine di migliaia di giovani donne (cinesi, coreane, filippine e di altri Paesi del sud est asiatico) furono rapite e costrette a prostituirsi. E per lungo, lunghissimo tempo, tutto questo è stato taciuto e negato. Gran parte di quelle ragazze morì per malattia a causa delle condizioni igienico-sanitarie, in conseguenza di aborti, sevizie, suicidi, omicidi per tentativi di fuga o ribellione.
In una di queste case, in una “casa nera e bianca”, viene condotta Wang Di. La sua voce è un sussurro profondo che scuote l’anima. Lì, la sua prima scomparsa. Spogliata dei suoi vestiti, del suo nome (non sarà altri che Fujiko lì dentro), chiusa in una squallida stanza a chiave, con una stuoia, una ciotola sporca di riso (quando va bene), l’oscurità e la paura, a ricevere fino a cinquanta soldati al giorno. Fino a cinquanta soldati al giorno.
Per non impazzire si impone di sdoppiarsi da se stessa. Non è lei a compiere (subire) quelle azioni, ma Fujiko. Scompare Wang Di. Scompare il suo corpo. Scompare la sua voglia di vivere, più volte si augura di morire, fino a quando pensa di non meritare nemmeno quella. La sua agonia dura tre anni. La liberazione e la fuga verso la sua precedente vita sarà una ennesima scomparsa.
Ormai non ero più Wang Di, ero solo una wei an fu.
La vergogna, il rifiuto delle persone, della sua stessa famiglia, gli sguardi carichi di giudizio e malevolenza le fanno comprende che lei non esiste più.
Veniamo a conoscenza del fatto che sia sopravvissuta a quell’inferno fin da subito, perché il romanzo si apre con Wang Di che ci parla a distanza di cinquant’anni dall’orrore vissuto. Nel presente, è una anziana signora, compromessa dal trauma subito in passato, prigioniera di una ferita insanabile ed inconfessabile. Non ha mai raccontato a nessuno quanto le è accaduto, nemmeno a suo marito Chia Soon Wei, che lei chiama il Vecchio, perché più grande di lei, sposato in tarda età, e che ha sofferto per tutta la sua vita a causa della guerra e di tutto ciò che gli ha portato via. Un affetto profondo li ha tenuti l’uno accanto all’altra, ma il loro matrimonio è caratterizzato anche da lunghi silenzi. Quando suo marito muore, lei avrebbe voluto saper trovare la forza di raccontare e ascoltare, invece di chiudersi ogni volta che la guerra veniva nominata.
All’alternarsi del presente e del passato della protagonista, si inserisce anche la storia di Kevin, un ragazzo dodicenne, bullizzato dai suoi compagni di scuola e solitario. In punto di morte sua nonna Ah Ma, credendo di parlare con suo figlio, gli svela un segreto che cambierà per sempre la sua e la vita della sua famiglia, un segreto su cui dovrà indagare e che lo porterà ad incrociare il suo cammino con quello di Wang Di.
“Storia della nostra scomparsa” è un romanzo di esordio indimenticabile, potente, sconvolgente, caratterizzato da un realismo feroce, una prosa pulita, lucida, coinvolgente. Lo stile di Jing-Jing Lee è affilato e allo stesso tempo poetico, una penna accurata, sia nel riportare il quadro storico di riferimento sia nel rendere edotti della cultura e dei costumi del luogo di ambientazione, lasciando al lettore tanto su cui riflettere, elaborare, immagazzinare. Ho apprezzato la scelta di fornire al romanzo più livelli di lettura, con le tre voci narranti che alternandosi, permettono di cogliere più punti di vista, in particolare nelle sfumature, tra passato e presente.
Partendo dalla storia della sua famiglia, ci restituisce un romanzo coraggioso e necessario. Coraggioso perché infrange quel muro omertoso di indifferenza e negazione costruito negli anni per cercare di relegare all’oblio quanto è accaduto. Necessario, perché leggere storie/testimonianze come questa permette di mantenere sempre viva la memoria, di non far spegnere il ricordo.
È sicuramente una lettura difficile, dolorosa, toccante. Mi ha commossa in diversi momenti, anche sul finale. Un finale che non poteva essere diverso da quello scelto dall’autrice, da interpretare. Da sentire.
Penso sia un romanzo forte e che questa forza risieda anche nella capacità di aver sfidato la paura della parola, del rifiuto, della non accettazione, il timore dell’evocazione della sofferenza, di aver fatto sentire sulla pelle del lettore l’umiliazione di quelle donne, il doloroso senso di vergogna con cui hanno convissuto, il senso di colpa, le ferite mai emarginate e sempre sanguinanti.
Abbiamo bisogno di romanzi come questo. Abbiamo bisogno di conoscere ciò che è stato, di quanto l’uomo abbia dimostrato di essere una bestia, per ritrovare umanità, fede, speranza. Per non dimenticare. Per giustizia.
Penso sia superfluo dirvi con quanto calore vi consigli la lettura di “Storia della nostra scomparsa”. Ho temporeggiato molto prima di pubblicare la mia recensione, avendo la sensazione di non aver detto abbastanza. Ora so che non sarà mai abbastanza, in effetti, che dovrete leggerlo e far camminare sulle vostre gambe questa storia, per poi suggerirla ad altri.
Jing-Jing Lee ha rotto un silenzio pesante e ci ha passato il testimone della memoria, della testimonianza: a noi il dovere morale di passarlo ad altri a nostra volta.