RECENSIONE: “Vera”, di Elizabeth Von Arnim (Fazi Editore)

Oggi vi parlo di un romanzo scritto da Elizabeth Von Arnim
intitolato Vera,
pubblicato lo scorso 26 settembre da Fazi Editore,
che ringrazio per l’omaggio della copia.

Autore: Elizabeth Von Arnim; Titolo: Vera; Casa editrice: Fazi Editore; Collana: Le strade; Prezzo: € 15,00; pag 296; Codice isbn:9788893256353; Data di pubblicazione: 26/09/2019.


Trama

Una mattina d’estate del 1920 la giovane Lucy perde il padre in maniera inaspettata e a causa del tragico evento si ritrova sola e disperata, priva di ogni speranza per il futuro. È uno sconosciuto, incontrato per caso sulla soglia di casa in Cornovaglia, a destarla dal torpore che il lutto improvviso le ha causato: il legame con Everard Wemyss, quarantenne da poco rimasto vedovo, è immediato, e la condivisa afflizione per la recente perdita di una persona cara genera tra i due un’inattesa e confortante intimità. Quell’uomo che conosce appena, e che agli occhi di lei appare solido, genuino e premuroso, s’insinua nella quotidianità e nei pensieri della ragazza, afferrando con risolutezza le redini della sua vita. Ma il tanto atteso matrimonio con Wemyss sarà diverso da come Lucy aveva sognato e le mura della casa dove il marito la porterà dopo le nozze diverranno quelle di una lussuosa e tetra prigione le cui giornate sono scandite da illogici rituali, un luogo in cui Lucy non si sentirà mai davvero accolta e dove la prima moglie, Vera, morta in torbide circostanze, si rivelerà un’entità ancora presente e palpabile, capace di turbarla nel profondo.
Elizabeth von Arnim, scrittrice talentuosa e di grande successo, torna in libreria con una storia avvolta da un’inedita atmosfera noir. Con una scrittura limpida e venata di sarcasmo, la von Arnim trascina il lettore in un’inquietante relazione dominata da un uomo ossessivo ed egoista, e gli consegna quello che, secondo il parere della stessa autrice, è il miglior romanzo che abbia mai scritto.


RECENSIONE

Elizabeth Von Arnim (pseudonimo di Mary Annette Beauchamp), classe 1866, è stata una scrittrice straordinariamente prolifica. Ho avuto modo ed occasione, negli ultimi anni, di avvicinarmi al suo lavoro, apprezzando istantaneamente la sua penna diligente ed elegantemente pungente, una penna che sovente nasconde (forse neanche troppo, a dire il vero) aspetti della sua esperienza diretta, della sua vita, della sua storia. Un tratto che mi ha legata al suo nome in maniera indissolubile.

“Vera”, pubblicato per la prima volta nel 1921, è l’undicesimo romanzo scritto da questa scrittrice ed è ritenuto, proprio dalla Von Arnim, il suo libro più riuscito. Ho appreso che è stato scritto alla fine del matrimonio rovinoso con John Francis Stanley Russel, il quale (pare) fosse un uomo violento e autoritario. Con una scrittura leggera, raffinata ed elegante, ricca di umorismo, la trama si incentra sull’analisi del rapporto matrimoniale di una coppia, un’indagine sui labirinti in cui l’amore, a volte, conduce, l’ingenuità di una giovane donna innamorata e il potere dispotico, violento ed egoista di un uomo maturo che, una volta conquistata la preda, può gettare la maschera e rivelare il suo meschino volto.

«Lucy scoprì che il matrimonio era diverso da come l’aveva immaginato. Anche Everard era diverso. Tutto era diverso.»


E’ un triste giorno d’estate per Lucy Entwhistle, giovane e inesperta ventiduenne, protagonista femminile del romanzo. Siamo nella Cornovaglia del 1920 e lei è arrivata da appena due settimane in questo luogo, scelto per trascorrere le vacanze in compagnia di suo padre, di cui da sempre si prende cura. All’improvviso, deve far fronte alla dipartita del genitore, con il quale aveva un legame solido, tanto da condividere tutto insieme a lui: viaggi, amicizie, letture, perché lui era così: tutto quello che toccava prendeva vita e diventava fonte di felicità. Un lutto tanto inaspettato quanto doloroso, tutta la nostra attenzione è focalizzata sullo sguardo assente ed inespressivo, perso nel vuoto, della ragazza, e quasi non ci accorgiamo, in un primo momento, che sta facendo il suo ingresso in scena un uomo che, attratto da quel viso, si avvicina e la osserva. Si tratta di Everard Wemyss, un uomo di quarantadue anni, di ritorno dal suo vagare sulla scogliera, torturato dal silenzio, dalla solitudine, cui si adegua per amore delle circostanze e delle convenzioni perché, a sua volta, è in lutto per la morte della moglie Vera, avvenuta in circostanze poco chiare poche settimane prima. Pare sia caduta dalla finestra della loro casa, ma durante l’inchiesta sul caso, fu avanzata anche l’ipotesi (respinta da parte di Everard) che la donna si fosse suicidata. Tra i due scatta immediatamente un legame strettissimo, basato sull’ascolto reciproco, sulla comprensione e sulla condivisione delle circostanze tragiche del lutto. Lucy si affida completamente a questo uomo, sentendosi protetta, lui le resta accanto nei giorni seguenti e si sostituisce a lei nella organizzazione delle incombenze pratiche e burocratiche del funerale. Diventa per lei la roccia e il baluardo, e vi si aggrappa con la sensazione inspiegabile di conoscerlo da sempre.

Rimasero a guardarsi, sbalorditi dal legame che li univa, dalla sua natura, dall’intimità che avevano raggiunto, dal modo miracoloso in cui si erano incontrati, da come ciascuno, pur in balia della propria disperazione, aveva salvato l’altro.

I due si fidanzano e decidono di sposarsi; a nulla varranno le perplessità manifestate dall’unica zia in vita di Lucy che, avendo letto dell’inchiesta sulla morte della prima moglie di Everard, non è felice dell’unione, ma è costretta ad accettarla per la felicità della nipote, per non ostacolarla, nonostante ciò le costi molta fatica.

Proprio come un secchio di acqua gelata in pieno viso, dopo il matrimonio, Lucy ha un amaro e freddo risveglio scoprendo la reale natura dell’uomo che ha sposato, che le impone, dapprima, di vivere nella stessa casa (The Willows) in cui ha vissuto con Vera, addirittura di dormire nella stessa camera da letto, senza apportare neanche un minimo intervento che le impedisca di non sentire, in ogni luogo, la presenza onnipresente della prima moglie.

(Vera) non aveva finito di vivere. Perché viveva nella sua mente, nella sua immaginazione.

Il passo successivo è quello di isolarla da tutti, dettare norme di comportamento, di reazione persino, pretendere che lei subisca la violenza verbale delle sue sfuriate, la sua aggressività, il non prendere mai in considerazione i sentimenti di lei, il rifiuto a trovare un compromesso sulle cose, portare la moglie alla più totale sottomissione.

Perché? Quello non era Everard. Chi era quell’uomo privo di pietà, crudele? Non era Everard. Non era il suo innamorato. Dov’era finito l’innamorato, il marito?

Lucy è smarrita, impaurita, scossa, sulle prime. Si rende conto della trasformazione (rivelazione) del marito, ma sembra incapace di opporvisi, di prendere la situazione in mano e reagire, soggiogata da quello che crede essere amore. Eppure il contrasto è evidente: tra l’uomo che vuole ottenere ciò che desidera (Lucy) e che quindi si mostra in un modo e l’uomo che ha raggiunto il suo scopo ed è quindi libero di essere quello che è davvero: crudele, egoista, autoritario, possessivo. Un rapporto che si fa sempre più soffocante, claustrofobico, dispotico, malato.

In queste pagine si evidenzia l’astuzia e la bellezza espressiva della narrazione proprie di Elizabeth Von Arnim, perché spesso il lettore è portato ad avanzare accuse dirette, è portato a supporre, è portato a sospettare.

Il finale è del tutto inaspettato, spiazzante. Io ho strabuzzato gli occhi, incapace di richiudere il libro, incapace di credere che realmente fosse finito… in quel modo.


Quando ho letto la trama di Vera per la prima volta non ho potuto fare a meno di riscontrare una fortissima modernità, una inconsapevole modernità. Nonostante sia stato scritto negli anni ’20 del ‘900 è impressionante quanto sia attuale, drammaticamente attuale.


Per quanto riguarda i personaggi, la loro caratterizzazione è vivida, impeccabile, soprattutto il tratto psicologico. Difficile nutrire una qualche simpatia per uno di loro, perfino per la vittima, Lucy, anche se in parte vorremmo assolverla. Everard: posso garantirvi che non mi capitava di detestare così intensamente un personaggio di un romanzo da tempo immemore, l’ho odiato come non ho odiato mai.


Aveva capito che Wemyss non cambiava mai idea. Sembrava che nella sua mente non si aprisse mai una breccia, un attimo di dubbio in cui lei potesse insinuarsi con un suggerimento o un desiderio; i progetti le venivano comunicati già confezionati e inalterabili.

Un messaggio per tutte le donne: fate sempre attenzione ai segnali, anche insignificanti.


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