TRAMA
Uno sguardo profondo sulle nostre solitudini, su come il male può piegarci ma anche risvegliare le forze che ci trasformano.
Leo ha sei anni. È nato sordo, ma la sua infanzia scorre serenamente. Con la sua famiglia, Leo parla la Lingua dei Segni, e quella degli affetti, che assumono forme inesplorate nei movimenti delle mani dei genitori e della sorella Anna. Ma è giunto il tempo della scuola e Leo viene mandato lontano da casa, a Milano, in un istituto che accoglie bambini come lui. Siamo ai tempi in cui nelle scuole è vietato usare la Lingua dei Segni. All’improvviso per Leo la vita diventa incomprensibile, dentro un silenzio ancora più grande di quello che ha vissuto fino a quel momento. Poi, in una notte d’inverno del 1964, Leo scompare. A nulla servono le ricerche della polizia: di Leo non si ha più notizia. Diciannove anni dopo, nello studio della sorella Anna, si presenta Michele, un compagno di Leo ai tempi della scuola. E inizia a raccontare la sua storia, partendo da quella notte d’inverno.
RECENSIONE
Non pensava alle parole, Leo le vedeva prima che nascessero. Non c’era suono che le rivelasse, non aveva mai ascoltato la voce di sua madre, non aveva mai sentito Anna chiamarlo per nome. Fin da piccolo aveva imparato a scrutare gli sguardi, decifrare i movimenti impercettibili del corpo, interpretare ogni piccolo segno che potesse nascondere un’intenzione. Funi a cui Leo cercava di aggrapparsi per non scivolare in un’altra forma di silenzio, quella più cupa e desolante dentro cui la sua solitudine sarebbe diventata insopportabile. Viveva dietro una parete di cristallo che lo teneva lontano dagli altri e teneva gli altri lontano da lui.
Sono entrata in punta di piedi in questa storia, consapevole che sarei arrivata alla fine con una forte componente emotiva che mi avrebbe chiesto il conto. Così è stato. Non credo sarà semplice esprimere pienamente quante emozioni ho provato leggendo questo romanzo, ma provarci è necessario, non solo per elaborare una recensione, quanto per accomiatarmi da uno dei libri più intensi letti quest’anno.
Non esagero quando affermo che questa lettura ha generato un vero e proprio tumulto interiore, tanto forte è stato il mio coinvolgimento con le vicende narrate, tanto potente è stato il mio bisogno di avvicinarmi il più possibile a delle solitudini stridenti e disperate, smarrite e inconsolabili per una scomparsa inspiegabile, per una mancata verità, per un’impossibile pacificazione con ciò che non trova risposta.
La forma del silenzio affronta il dolore, la perdita, i sensi di colpa, la reazione ai traumi che segnano l’esistenza nostra e di chi abbiamo accanto, le fragilità umane e i suoi limiti di sopportazione, di forze oscure che possono gettare ombre nelle quali è difficile intravedere un raggio di sole, ma è anche il racconto del coraggio che non si sa di possedere, della forza che si fa spazio nel buio del nostro animo ferito per esplodere nella ricerca della verità, costi quel che costi. La storia di una lotta che non conosce stanchezza, non conosce rassegnazione, non conosce sconfitta.
In una fredda notte d’inverno, un bambino di sei anni, Leo, scompare misteriosamente, mentre si trova nell’Istituto Tarra di Milano, una scuola per sordi, che aveva iniziato a frequentare da pochi mesi, lasciando la sua famiglia nella disperazione.
Durante tutta la sua infanzia, la voce di Leo aveva preso vita attraverso la lingua dei segni con la sua famiglia, in particolare con sua sorella Anna,
Se doveva dire qualcosa, stringeva gli occhi e si metteva a tracciare segni nell’aria senza mai distogliere lo sguardo da chi gli stava di fronte, una preghiera che recitava con il corpo, parole mute che sgorgavano da un angelo ferito.
Nel collegio la LIS è vietata, ai bambini si pretende di insegnare a leggere le parole sulle labbra; tutto il mondo di Leo si perde in un silenzio ancora più assordante. Odia stare lì, non poter muovere le braccia e le mani, non sopporta di essere sgridato in continuazione quando lo fa e che gli venga sottratto l’unico modo che conosce per comunicare e comprendere ciò che ha intorno.
Lo aveva stabilito la Conferenza internazionale di Milano sull’educazione dei sordomuti nel 1880. Loro sapevano esattamente quale fosse la cosa migliore da fare. Loro, che non erano sordi né muti, loro che potevano parlare e sentire e vivevano in quel mondo perfetto, loro che a occhi chiusi potevano dire il proprio nome e lasciarlo galleggiare nell’aria, quelle stesse persone avevano deciso che nelle scuole la Lingua dei Segni andava bandita, perché i gesti erano per gli animali, l’istinto dei primati, e svilivano l’uomo.
Il non poter essere libero di esprimersi, di essere accettato, il continuo tentativo di forzare e reprimere, generano una angosciante frustrazione in Leo, che si chiude ancora di più in se stesso. Non ho più la mia voce.
Leo è cattivo perché non ubbidisce. Loro non capivano. Muovi le labbra, Leo, non muovere le braccia. Hai una bocca, sì? Muovi le labbra, non le braccia. Vuoi finire in punizione di nuovo? Vuoi restare al buio nella stanza dei Bambini Cattivi? No? Allora muovi la bocca e tieni le braccia ferme.
Il silenzio che ha riempito la sua vita diventa un macigno ancora più pesante nella notte della sua scomparsa.
Le ricerche non portano a nulla, nessuno lo ha visto. La polizia lo cerca invano. Di Leo nessuna traccia.
Quali conseguenze comporta una scomparsa di tale dimensione? Chi rimane resta in vita a metà, sopravvive alla mancanza senza poter razionalizzare o ne è completamente distrutto. I sensi di colpa iniziano ad insinuarsi nella coscienza, insidiosi e pungenti, e il sentirsi incompleti farà parte sempre della nuova realtà.
Trascorrono diciannove anni e Anna, la sorella di Leo, è una maestra di sostegno in una scuola elementare e psicologa. Si presenta al suo studio un uomo, Michele Grossi, che comunica attraverso la lingua dei segni. Anna ne è impressionata perché è impassibile, tutti i sordi avevano una voce, ma lui no. Ciò che le dirà la sconvolgerà ancora di più:
Era una notte di neve, io e Leo eravamo davanti alla scuola. Poi arrivò un uomo e lo portò via.
Nonostante lo sgomento e l’inquietudine, Anna decide di andare fino in fondo e cercare quella verità che per così tanto tempo le è sfuggita di mano. Per raggiungerla dovrà affrontare i suoi demoni, mentire, inventare una nuova identità, indagare, scontrarsi con una sconcertante risoluzione finale.
Stefano Corbetta è riuscito a rendere udibile il silenzio. È riuscito a dare forma al silenzio. È riuscito a trattare una tematica così importante con delicatezza ed eleganza poetica, con una scrittura capace di toccare anche i cuori più freddi, avvicinare ed interessare chi non conosce nulla della sordità e della LIS, sensibilizzare e porre all’attenzione una realtà di cui si parla veramente poco.
La forma del silenzio non è solo un giallo, un mistero da risolvere, è un percorso di maturazione e di crescita, attraversato da tanto dolore, un veicolo potente di emozioni e sentimenti, di empatia e capacità di comprensione, una scossa che rompe il muro di indifferenza che spesso le persone tendono a edificare davanti a realtà che non conoscono. È un libro che scuote, commuove, emoziona, lascia il segno, dando forma al silenzio.
Avrebbe voluto essere un’aquila per spiccare il volo, sorvolare la città e con i suoi occhi da rapace perlustrare dall’alto le vie e le piazze, scandagliare ogni anfratto e infine buttarsi in picchiata puntando su di lui, perso, smarrito in qualche angolo, rannicchiato al freddo, e posarsi sulla sua spalla per dirgli: eccomi, sono qui, sono venuta a prenderti.
(Ringrazio l’ufficio stampa per la copia del romanzo e ringrazio caldamente Stefano Corbetta per averci regalato un romanzo indimenticabile)